16 maggio 2017
Transfer pricing: tutti i valori del range della benchmark sono validi
Il tema del transfer pricing è ormai di quotidiana attualità, tanto che la giurisprudenza di merito (e non solo) non manca di offrirci interessanti spunti di riflessione.
Giova preliminarmente ricordare che la valutazione della congruità dei prezzi di trasferimento rappresenta da sempre un tema di grande complessità con conseguenti difficoltà oggettive nell’applicazione della disciplina de qua, sia per l’Amministrazione finanziaria che per il contribuente.
In proposito, registriamo che recentemente, in linea con le indicazioni OCSE ed anche alla luce dei lavori del progetto BEPS, nonché di una prassi amministrativa e giurisdizionale domestica che fa sovente ricorso agli standard internazionali, il legislatore tributario è intervenuto con l’art. 59 del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, sostituendo il riferimento al valore normale (ormai datato) con il più tecnico e puntuale principio di libera concorrenza (c.d. arm’s lenght principle) da applicare nell’ambito della disciplina del cd. transfer pricing, recata dal comma 7 dell’art. 110 del TUIR.
In questa sede ci preme segnalare alcune interessanti sentenze emesse dalle Commissioni Tributarie della Lombardia (CtP e CtR) in tema di rettifica dei prezzi di trasferimento, valorizzandone i principi che ne derivano che possono di sicuro orientare, sia il contribuente che la stessa Amministrazione finanziaria verso una corretta applicazione delle tecniche di costruzione/controllo del transfer pricing.
Con la sentenza n. 7499/15/2016 della CtP di Milano, i giudici di prima facie hanno confermato la tesi sostenuta da un’impresa domestica operante nel settore moda che ha dimostrato di aver applicato alla consociata estera stabilita in Hong Kong sconti commerciali in linea con quelli praticati a clienti terze parti indipendenti, con cui ha intrattenuto analoghe transazioni comparabili. Più in dettaglio, la società aveva applicato una politica di sconti crescenti sulla base delle quantità vendute, per transazioni di importo significativo e per clienti rilevanti. Analogo criterio era stato applicato per la consociata hongonkina in quanto anch’essa era da considerare un cliente “rilevante” al pari dei terzi, atteso che effettuava consistenti volumi di acquisti.
Pertanto, il metodo del CUP (Comparable Uncontrolled Price) risultava applicato in modo coerente atteso che il confronto del prezzo (i.e. confronto di prezzo interno) era stato fatto con clienti terzi delle medesime dimensioni, prendendo poi a riferimento la media delle transazioni realizzate sui vari prodotti tra loro omogenei e non sui singoli articoli.
Al contrario, l’Ufficio finanziario aveva considerato e, quindi, ripreso a tassazione le sole differenze negative per la contribuente emergenti da singoli articoli, senza considerare la diversità di volumi, dei mercati, delle funzioni svolte e dei rischi assunti dalle parti e, quindi omettendo di eseguire una corretta analisi funzionale. Questa conclusione che porta ad un’applicazione eccessivamente analitica del CUP è stata censurata dai giudici che hanno ritenuto, invece, corretta l’impostazione della ricorrente.
In tema di comparabilità anche la CtR Lombardia, sentenza n. 4880/13/2016 e la Suprema Corte di Cassazione, sentenza n. 9709/2015, hanno affermato che vanno valutati tutti i fattori che possono incidere sul prezzo o sull’indicatore di profitto usato per determinare il valore normale. Ad esempio, il trasporto, l’imballaggio, la pubblicità, le garanzie, i resi, le spese doganali, il rischio di cambio, ecc.
Un’altra sentenza interessante della CtP Milano, n. 8301/172016, prende le mosse da una rettifica dei prezzi intercompany applicati nei confronti di una società residente da una controllata estera. L’Ufficio, basava la sua contestazione su una selezione di soggetti comparabili risultanti dalla benchmark da cui individuava un intervallo di valori di redditività da confrontare con quelli della società domestica. Atteso che la redditività era inferiore alla mediana della benchmark si contestavano parte dei costi sostenuti nelle transazioni intercompany in quanto eccedenti al valore normale.
Anche in tal caso, i giudici meneghini non hanno condiviso la tesi dell’Ufficio, considerando, tra l’atro, che per determinare il corretto posizionamento di un intervallo di valori occorre considerare il ruolo, le funzioni e i rischi assunti dalla società e, quindi, anche in tal caso necessitava un’attenta analisi funzionale.
La ricerca della mediana è una prassi sostenuta dall’Agenzia delle Entrate che a dire il vero non sembra trovare menzione in alcun documento di prassi amministrativa. Al contrario, invece, in altra sentenza della CtR n. 1670/50/2015 aderente alle linee guida OCSE in materia di transfer pricing, è stato ribadito che “tutti i valori di un intervallo sono idonei a rappresentare i valori di libero mercato”. A fortiori, si evidenzia ancora che la CtP Milano, sentenza n. 4073/9/2016, ha affermato il principio che una normativa che imponesse al contribuente di uniformarsi ad un unico punto di riferimento, vincolerebbe il contribuente a centrare una mediama che trattandosi di un dato statistico varia continuamente.