• CATALOGO
  • LIBRI
  • CODICI
  • RIVISTE
  • SERVIZI ON LINE
  • ELEARNING
  • EBOOK
  • APP
  • BANCHE DATI
  • SCUOLA DI FORMAZIONE
  • SOFTWARE
 

Fiscalis

Il Blog di Antonio Veneruso

  • Home
  • Profilo
  • Pubblicazioni
  • Contatti
  • Archivio
Postilla » Fisco » Il Blog di Antonio Veneruso » Accertamento, sanzioni e processo Tributario » Transfer pricing: il fisco deve fornire la prova di «elusività»

27 gennaio 2017

Transfer pricing: il fisco deve fornire la prova di «elusività»

Tweet

Prendiamo spunto dalla sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano, n. 8301 del 2016, per analizzare la natura elusiva della disposizione di cui l’articolo 110, comma 7 del T.U.I.R., posta a presidio delle operazioni internazionali con parti correlate (i.e. intercompany).

 La tematica dell’elusività della disciplina dei prezzi di trasferimento è da sempre un argomento ricorrente e dibattuto nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, laddove come è noto si registrano sentenze pro e contro.

Giova brevemente ricordare che l’articolo 110, comma 7 del citato T.U.I.R. non detta particolari disposizioni per le operazioni in disamina ma rinvia semplicemente al valore normale, ex articolo 9 dello stesso Testo Unico, cui sono soggette le transazioni in parola.

Come meglio evidenziato da autorevole dottrina, la discussione va posta in primis nel contesto dell’articolo 2697 del cc, in termini di onere della prova, secondo cui «chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento» e «chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti… deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda». 

Pertanto, appare chiaro che il tema dell’elusività diventa determinante, in quanto se passa tale concetto, per cui chi scrive propende appieno, l’Agenzia delle Entrate sarà chiamata a provare non solo lo scostamento dei prezzi dal valore normale, ma pure il vantaggio fiscale che ne deriva in funzione della differente tassazione tra Stati coinvolti nelle operazioni de qua .

Al contrario, se si propende per la diversa ipotesi di non elusività della disposizione, il fisco sarà tenuto a dimostrare il semplice l’utilizzo di prezzi che non soddisfano il valore normale e procedere sic et simpliciter al relativo recupero a tassazione della differenza accertata.

Ed è proprio in questo contesto che si inserisce l’interessante pronuncia della CTP di Milano, di cui alla citata sentenza n. 8301/2016 che in sostanza propende per la natura elusiva della norma in rassegna.

Nel caso di specie, la ricorrente, società residente con controllata in Francia, sosteneva che l’Ufficio avrebbe dovuto fornire la prova che le condizioni contrattuali, pattuite tra la verificata e la controllata, comportavano effettivamente un indebito vantaggio d’imposta derivante dalla migliore collocazione degli imponibili fiscali, in Paesi con tassazione più vantaggiosa rispetto all’Italia.

Di parere avverso era l’Ufficio il quale riteneva, in sintesi, che l’onere a proprio carico doveva limitarsi a verificare l’esistenza di transazioni intercompany di carattere internazionale, nonché la presenza di uno scostamento tra il corrispettivo pattuito e il valore di mercato, non essendo tenuto alla prova della finalità elusiva della transazione esaminata.Di diverso parere si sono mostrati, invece, i giudici di prima facie, che sono giunti alla conclusione che «la disposizione in questione impone alle parti il riferimento a valori normali in luogo dei corrispettivi liberamente pattuiti tra le parti allorché vi sia un fondato timore che all’interno del medesimo gruppo di imprese possa sorgere la tentazione di allocare i redditi in Stati che offrono un livello di tassazione particolarmente vantaggioso, sottraendoli alla tassazione italiana» arrivando alla conclusione secondo cui «l’Ufficio deve provare il vantaggio fiscale di cui si è avvantaggiata, in modo non corretto, la società».

Nel caso de quo, come anticipato, le transazioni oggetto di analisi e contestazioni da parte dell’Ufficio erano rivolte dalla ricorrente alla consociata residente in Francia, che si ricorda essere un Paese UE a fiscalità ordinaria in linea con l’Italia ovvero dove le imprese domestiche non potrebbero certamente invocare una tassazione ridotta o addirittura paradisiaca.

A parere di chi scrive, non si può che convenire con la richiamata autorevole dottrina (si veda il Sole 24 Ore), secondo cui la sentenza in rassegna è coerente con le recenti evoluzioni in ambito europeo. L’Ocse, infatti, nell’ambito del progetto Base Erosion and Profit Shifting (BEPS) e, in particolare, nell’Action 8-10 (Assure that Transfer Pricing Outcomes are in line with Value Creation), contempla lo sviluppo di regole atte ad impedire fenomeni elusivi in ambito Transfer pricing, confermando ancorché implicitamente, la natura antielusiva delle disposizioni stesse.

Se così non fosse, cioè ci si limitasse alla semplice contestazione della sola difformità della transazione al volere normale rispetto ad operazioni similari con parte terze, si creerebbe una chiara distorsione del dettato normativo posto a presidio delle operazioni  in materia di transfer pricing, il cui precipuo fine è quello di prevenire e reprimere fenomeni evasivi connessi allo spostamento artificioso di profitti verso giurisdizioni a fiscalità più vantaggiosa.

A titolo meramente esemplificativo, si pensi ad Gruppo domestico che si trovi a realizzare, in recenti congiunture, una  perdita complessiva; dato il sistema dei prezzi di trasferimento adottato dallo stesso la perdita verebbe poi allocata sulle controllate distributive estere e ciò “favorirebbe” le entrate fiscali dello Stato italiano rispetto ad altri modelli ove il distributore è “esentato” da perdite. In tal caso, appare evidente che eventuali contestazioni del fisco basate soltanto sul dato formale (non at arm’s lengtht), paradossalmente, determinerebbero ulteriori perdite sulle company estere, in contrasto col principio di libera concorrenza, che  aggraverebbero l’accettabilità della loro “situazione” di fronte alle Amministrazioni estere.

Ecco perché, in conclusione, si ritiene, quindi, che, in armonia con la ratio della norma, l’azione del fisco non deve limitarsi all’accertamento del solo dato formale, cioè che l’operazione non è at arm’s lengtht, ma deve spingersi anche oltre questo traguardo, dimostrando pure che l’operazione posta in essere con la parte correlata estera (i.e. intercompany) sia in grado di provocare un indubbio vantaggio fiscale all’impresa residente in termini di maggiori costi o di minori ricavi, realizzando una delle ipotesi di Profit Shifting che il sistema globale intende sradicare.

Letture: 3622 | Commenti: 0 |
Tweet

Scrivi il tuo commento!

  • 31 marzo 2012, 3000 euro, accertamento con adesione, accertamento fiscale, Agenzia delle entrate, agenzia entrate, amministrazione finanziaria, beni aziendali, BEPS, black-list, capitalizzazioni, cellulari, CFC rule, circolare Entrate 21/2012, comunicazione telematica, contenzioso tributario, costi black list, country file, D.L. liberalizzazioni, D.L. sviluppo, depositi IVA, diritti del contribuente, doppia imposizione, elenco clienti-fornitori, fiere, finanziamenti, fiscalità internazionale, garanzia, internazionalizzazione, invio telematico, irap, Iva, leasing, libera pratica, locazioni commerciali, MAP, master file, microprocessori, OCSE, operazioni rilevanti ai fini IVA, reverse-charge, rivalsa, territorialità Iva, transfer pricing, tuir
  • HOME |
  • FISCO |
  • DIRITTO |
  • LAVORO |
  • IMPRESA |
  • SICUREZZA |
  • AMBIENTE
  • Chi è postilla |
  • I blogger |
  • Blog Policy |
  • Diventa Blogger |
  • Chi siamo |
  • Contatti |
  • Privacy |
  • Note Legali |
  • Policy cookie |
  • Pubblicità
 X 

P.I. 10209790152

Postilla è promossa da: IpsoaIl FiscoCedamUtetIndicitalia